CuriositàCarlo Verdone: arte, sorriso e medicina

Carlo Verdone: arte, sorriso e medicina

Attore, regista e vero artista che non solo diverte, ma riesce a curare l’umore del pubblico, non perdendo mai l’occasione di “bacchettare” difetti e debolezze. Stiamo parlando di Carlo Verdone, un “antidepressivo senza effetti collaterali” come ama definirsi. E questa definizione racchiude le due sue più grandi vocazioni: lo spettacolo da una parte e la medicina dall’altra, per cui ha un vero e proprio talento. Ecco la sua intervista.

Dici Carlo Verdone e tutti sorridono come se parlassi di una persona di famiglia, di un amico che si ha piacere di incontrare…Da cosa dipende questa empatia con il pubblico?

Credo dipenda da due aspetti: il primo è l’associazione tra il mio viso e tutti i personaggi che negli anni ho creato; il secondo è il mio modo di pormi, smisuratamente sincero, senza struttura o maschere. Sono quello che sono, per questo porto a sorridere. Anche se in realtà sono un’anima ” malinconica”.

Gli spunti dei profili caratteriali dei tuoi personaggi sono frutto di fantasia o sono ispirati alla vita reale?

Sicuramente vengo stimolato dagli avvenimenti della vita “reale”, ad esempio dall’incontro con la gente comune, da un articolo letto che mi ha interessato. Amo la quotidianità e tutte quelle situazioni legate al vivere quotidiano. È poi il mio essere acuto e sincero che mi porta ad elaborare il dettaglio, ad ingrandirlo e a costruirci un personaggio e tutti i suoi particolari. La mia abilità è quella di esaltare quel “dettaglio” perché può racchiudere un elemento dell’attualità, di nevrosi odierna o di un “tic” eterno.

I personaggi descritti portano inesorabilmente a sorridere, ma spesso è un sorriso che lascia trasparire amarezza. Perché?

La melanconia fa parte del mio essere. A 14 anni il mio migliore amico morì. Ho vissuto la scomparsa di un coetaneo come una tragedia che mi ha profondamente segnato portandomi quasi alla depressione. Era il ‘65 e il medico che mi seguiva la definì “melanconia obscura”, un termine ottocentesco per dire depressione. Da quell’episodio, mi è rimasto una visione della vita “leopardiana”, una forma crepuscolare che fa parte del mio essere.

Quale medicina consiglieresti per migliorare gli italiani?

È basilare stimolare il senso di responsabilità. Sono i genitori in primis che dovrebbero trasmettere i valori e far sperare in un futuro migliore. Purtroppo oggi principi quali misericordia, buon senso e dialogo con i figli non rientrano nello stile di vita dei genitori, che spesso dimostrano di essere meno maturi di altre generazioni e sfuggono alle difficoltà. Personalmente, ritengo di essere un buon padre e l’alleanza con la madre dei miei figli anche nello sdrammatizzare le situazioni con il riso e far sentire continuamente la nostra presenza, sono stati un giusto rimedio per non far soffrire i figli che sono cresciuti sereni e pieni di interessi.

Quale valore per te è essenziale?

La famiglia è l’unica e ultima occasione che abbiamo. Volersi bene deve essere il punto fondamentale del nostro vivere la famiglia. Amare è faticoso, è un lavoro e per questo dobbiamo sempre tenere a mente la cultura del buon senso. Molti lasciano il certo per l’incerto. Bisogna pensarci cento volte prima di chiudere e riaprire una storia.

Perché la passione finisce?

Stiamo vivendo in una società che ha il mito dell’eterna giovinezza e gestiamo i sentimenti con la teoria della permuta, della “sostituzione veloce”. Alle prime difficoltà di un rapporto ci viene spontaneo cambiare il partner, esattamente come sostituiamo il computer o il cellulare, per una strana smania di aggiornamento continuo.

Oppure all’estremo opposto esistono coppie che pur non provando più sentimento perseverano nell’unione, creando comunque tensioni pesanti, che portano a sentirsi soli nonostante si condivida una casa. E anche questo è un disastro, con contraccolpi che spesso subiscono i figli.

Amare è un gravoso impegno, pieno di soddisfazioni enormi, che richiede dedizione, conquista continua e tolleranza reciproca.

Parliamo della passione per la Medicina e della Laurea Honoris causa…

Credo di averla ricevuta per simpatia, io la chiamerei laurea “doloris causa”. L’università Federico II di Napoli me l’ha conferita nel 2007 per la mia vocazione verso la medicina che amo tanto. In verità sono in tanti a chiedermi consiglio e mi raccontano la loro sintomatologia. Certo non darei mai consigli per problematiche cardiovascolari o ginecologiche, ma sono riuscito a salvare 3 vite: ho diagnosticato una sindrome di Stevens-Johnson invece scambiata per una varicella, una emicrania che era un ictus in preparazione e un tumore al colon. È inquietante però che un attore appassionato possa arrivare dove dovrebbe arrivare il medico curante. Non è stato un mio merito, ma un demerito di alcuni medici.

Che cosa l’affascina della medicina?

Il rendersi utile agli altri. Poter evitare la sofferenza altrui, poter trasmettere il valore e l’importanza della prevenzione che, secondo me, oggi è tutto.

Che consiglio si sente di dare ai medici?

Usare il “buon senso” e tornare come negli anni ’50, quando non c’era tanta tecnologia diagnostica e si ascoltava il paziente con meno fretta. Un buon medico deve essere anche un bravo psicologo e spesso considerare che i modi bruschi di comunicare una patologia non portano a niente di buono. Il medico deve “accarezzare” il paziente stimolandolo a non cadere nella depressione, con autorevolezza ed un sorriso ottimistico.

Redazione di Sorridiamo
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